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L’Islanda fra proibizionismo e moralismo di Stato

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– Qualche giorno fa, i media britannici hanno rilanciato una notizia piuttosto curiosa proveniente dall’Islanda: il Ministro dell’Interno Ögmundur Jónasson ha annunciato di voler bandire l’accesso ai siti porno. Con questo divieto, che si aggiungerebbe a quello di stampare e diffondere riviste a luci rosse e a quello più recente sugli strip club, l’Islanda diventerebbe la prima democrazia occidentale a porre un divieto totale sulla pornografia.

Fra le misure previste, si parla di bloccare tutti gli indirizzi di siti a luci rosse e, addirittura, di rendere illegale l’uso di carte di credito islandesi per vedere filmati porno in pay-per-view. Jónasson così giustifica l’iniziativa: “Dobbiamo poter discutere un divieto sulla pornografia violenta, che tutti sappiamo avere effetti molto dannosi sui giovani e avere un chiaro nesso con l’incidenza di crimini violenti“.

Una delle consigliere del ministro Jónasson, Halla Gunnarsdóttir, ha così spiegato la genesi del provvedimento: “ricerche dimostrano che l’età media dei bambini che guardano siti porno in Islanda è di 11 anni, siamo preoccupati per questo e per la natura sempre più violenta del materiale a cui sono esposti“. “Al momento, stiamo valutando le migliori modalità tecniche per realizzare [il divieto] – conclude la Gunnarsdóttir – Ma di sicuro, se siamo stati in grado di mandare un uomo sulla Luna, dobbiamo essere in grado di contrastare il porno su Internet“.

Tuttavia, già si sono alzate le prime voci contrarie. La parlamentare Birgitta Jónsdóttir ha scritto un duro editoriale sul quotidiano britannico The Guardian, in cui pur definendo il tentativo “nobile“, lamenta che la legge ha già sortito un primo effetto: “molte compagnie stanno già pensandoci due volte prima di stabilire il proprio business in Islanda“, per paura che questo divieto possa trasformarsi “in quel tipo di censura vera e propria comunemente attribuita a Paesi come la Cina o l’Arabia Saudita“.

Se la parlamentare usa parole tutto sommato gentili, sebbene ferme, verso il ministro Jónasson, appare molto meno diplomatica con la consulente Gunnarsdóttir che definisce “ancor più malconsigliata: “È ovvio che non sa come funziona Internet; mettere dei “muri” intorno a essa non funziona, a meno che tu non voglia creare una tua rete, similmente a quello che sta facendo l’Iran“.

Nel nostro piccolo, ci sentiamo di sposare in toto la posizione della deputata islandese: il proibizionismo non ha mai ottenuto alcun risultato degno di questo nome, anzi non ha fatto altro che peggiorare il problema. Ci sono poi troppe questioni di tipo tecnico che rendono, di fatto, impossibile attuare una “soluzione cinese” – per non parlare della assoluta non necessità di imporre un’etica di Stato.

Altri esempi di “moralismo proibizionista” in passato sono miseramente falliti: nel 2008, la Internet Watch Foundation (una fondazione britannica che si occupa di lotta al materiale pedo-pornografico) mise in blacklist una pagina di Wikipedia in inglese, riguardante un album del 1976 della band heavy metal tedesca degli Scorpions.

Il motivo del blocco fu la copertina originale dell’album, che raffigura una ragazzina pre-adolescente nuda e che venne considerata violazione del Protection of Children Act del 1978. Il provvedimento ebbe due effetti: il blocco in scrittura della versione in inglese di Wikipedia in tutto il Regno Unito e un impressionante picco di accessi proprio all’immagine incriminata (un fenomeno ormai largamente conosciuto come “effetto Streisand“). Risultato: l’immagine è rimasta dov’era e il blocco è stato rimosso dopo quattro giorni.

Ciò che lascia perplessi è la parabola di un Paese che, fino a pochi anni fa, nel pieno dello scandalo di Wikileaks, si proponeva come “porto sicuro” per la libertà di informazione e del web. “Fortunatamente, la possibilità che questa proposta passi attraverso il Parlamento è prossima allo zero“, spiega la Jónsdóttir, la quale ha anzi annunciato che la commissione parlamentare che si dovrebbe occupare della vicenda sta già valutando metodi alternativi, come software di filtraggio gratis e campagne educative, che sicuramente appaiono molto più sensati della proposta del Governo islandese.


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